mercoledì 22 ottobre 2008

CI PUOI ENTRARE ANCHE CON UN' HEINEKEN

Avevo già idea di quello che aspettava il sabato una volta che sarebbe calata la sera. Avevo iniziato a litigare con la mia fidanzata come sempre per questioni di poco conto: lei vedeva in me delle cose che non andavano, io vedevo in lei qualcuno che volesse minarmi l’esistenza. I soliti problemi di coppia. In realtà ci eravamo stufati entrambi l’uno dell’altra ma non avevamo il coraggio di affrontare la cosa credo per pigrizia. Un giorno saremmo arrivati ai coltelli e sarebbe stato meglio così, visto che non avremmo dovuto usare parole e perdere tempo nel tentare di capirci l’un l’altro.
Il pomeriggio aveva preso una piega che andava dal tragicamente ridicolo allo stupidamente drammatico. Decisi su due piedi alle 19.00 che quel sabato sera lo avrei passato in solitudine o sarebbe potuta scattare la tanto sognata carneficina. Intanto il tempo fuori non prometteva niente di buono: si era alzato il vento, i piccioni se ne erano tornati nei loro stupidi nidi, le lucertole erano in letargo e in quella periferia dove vivevo, chissà perché, i cani appena calava il sole smettevano all’istante di pisciare. Povere bestie che al mattino seguente avevano una vescica talmente grande da inondare i marciapiedi. Intanto lei mi aveva telefonato una mezza dozzina di volte per dirmi che noi non parlavamo mai abbastanza. Questo non fece che aumentare la mia voglia di stare in silenzio di non avere con lei il minimo dialogo, eravamo a fine corsa e me ne rendevo conto pienamente. Forse mi serviva solo una sana ubriacatura per acquietarmi e poi ripartire, alla stessa maniera di come possono servire le ferie per uno che lavora. Credevo a questa cosa. Verso le 22.00, lei mi chiese che intenzioni avessi per quella sera. Risposi semplicemente che me ne volevo stare per i fatti miei. La cosa la fece andare su tutte le furie; io non capivo come mai, dato che lo stare insieme non aveva fatto altro che portare a litigi continui. Riattaccai tra le sue lacrime e i suoi “stronzo” e appellativi vari. Presi a girare in macchina e mi ritrovai circa tre quarti d’ora dopo sui navigli. Ci ero finito per sbaglio guidando e bevendo Heineken da 66 in barba al codice della strada.
Non avevo voglia di stare lì in coda insieme ad altre vetture piene di gente euforica senza problemi o con problemi che però mascherava piuttosto bene. Non avevo voglia di divertirmi ero piuttosto in quella fase calante in cui si preferisce restare soli al buio a bere in silenzio ascoltando i vicini litigare, beandosi di non essere nei panni di lui; ma ero uscito per girare in macchina e me ne ero fortemente pentito. Sentii bussare al vetro della vettura.
-Ciaaaaaoooo! Ma dove vai?- disse Valentina mandando baci. Dietro di lei c’era Alessandra che io chiamavo “Santri”. Dal tono della voce di Vale mi sembrava che lei fosse abbastanza regolare, mentre dallo sguardo vacuo di Santri si poteva constatare che era ubriaca forte.
-Stiamo andando da Penny al McDonald! Dai vieni anche tu,andiamo a farci un giro, parcheggiati lì che sta uscendo la macchina!- Sinceramente non ne avevo voglia, però ero lì non avevo niente da fare, l’unica bottiglia di Heineken aveva solo due dita d’argomenti e poi non avrebbe avuto niente da dire. L’unica via di fuga era cedere alle loro proposte. Parcheggiai dove vidi la macchina uscire. Andai al McDonald a piedi. C’erano Vale, Santri e Penny. Ci fu uno scambio di saluti. Penny reggeva un bicchiere di plastica colmo di liquido ambrato.
-Toh Andre- disse Penny allungandomi il bicchiere. Io bevvi un sorso.
-Andiamo a prendere da bere al baretto laggiù- proposi io. Avevo dieci euro in tasca. Ci muovemmo tutti quanti insieme io e Santri davanti e dietro Penny e Vale. Penny continuava a parlare di estetica con Vale, io in silenzio proseguivo guardando a destra e sinistra in cerca di qualcosa che non sapevo nemmeno io cosa; mi sembrava tutto di plastica, ma la realtà è che non ero capace di ridere. C’erano tante ragazze eppure nessuno che mi volgeva lo sguardo nemmeno per sbaglio. Tirai dritto fino al bar tabacchi. Mi feci largo tra la calca, tutte le ragazze felici e i ragazzi con lo sguardo da duri, in realtà era tutta una finta sia da parte degli uomini che delle donne. L’unica cosa di reale era la folla da sbaragliare e tre birre da poter acquistare con quelle dieci euro. Santri mi confessò che non aveva un soldo bucato perché lei e vale erano andate al bingo di viale Washington e si erano mangiate ottanta euro.
-Va beh c’è Penny che avrà qualcosa- avevo detto io sicuro. Santri aveva biascicato qualcosa di simile ad un affermazione.
-Ragazzi! Venite da me con le birre!- urlava una tipa seduta su uno sgabello all’entrata. Aveva il terrore di subire dei furti; proprio lei che vendeva una birra a tre euro! Non andai da lei per principio. Stazionai di fianco a un cingalese addetto a stappare le bottiglie. Pagai. Mi diede una busta di plastica per mettere via la terza birra, perché diceva che c’erano degli ispettori che facevano certi controlli; non capii bene ma presi su il sacchetto e mi infilai la bottiglia nella tasca posteriore dei jeans. Ritornai fuori e diedi una bottiglia a Santri e l’altra la tenni per me. Le ragazze si divisero la bottiglia. Sostammo fuori dal bar in mezzo alla calca di persone, tutti con in mano qualcosa. Loro parlarono di estetica. Io mi tenni fuori da quei discorsi. Bevvi la mia birra. Santri cercò di scroccare una sigaretta poiché nessuno di noi le aveva. Gettai lo sguardo nel mezzo della folla, in tutto quel socializzare. Universitari o giù di lì. Noi con quasi le pezze al culo. Eravamo paesi in via di sviluppo. Cercai di non pensarci finendo la birra.
-Che facciamo?- chiese Penny.
-Offri da bere- le proposi.
-Ho un euro!-
Iniziò a serpeggiare il panico che la serata stesse per finire. Nessuno coi soldi e io con una birra da 66 in tasca. Non c’era peggior fine.
-Andiamo a prelevare- risolse Vale. Lo sportello bancomat si materializzò dopo qualche metro. Vale inserì
la tessera ma il bancomat gli disse visibilmente adirato a caratteri cubitali gialli che non era possibile prelevare. Andò meglio a Santri; la faceva prelevare. Solo che, era troppo ubriaca e non si ricordava il codice. Vale e Santri vivevano assieme e Vale conosceva il codice di Santri almeno, lei ne era convinta.
-Prova a fare uno sforzo, dai, non puoi illudermi così!- dissi.
-Aspetta Andre, allora 06078- digitò. Il codice non era valido.
-Merda- disse. Ci pensò un attimo. 07068. Sbagliato.
-Guarda che se fai tre errori ti incula la targhetta- avvisò Penny.
-Alessandra, guarda che è così- le suggerì Valentina –06870-
Santri digitò il codice. Sbagliato. Però la banca ci fece riprovare. Dietro di noi si era formata una mini coda di persone; ridevano tutti della nostra situazione. Io estrassi la bottiglia dai jeans, srotolai il sacchetto e con un accendino la aprii. Ora ero pronto ad affrontare chiunque.
-Dai spostiamoci e facciamo prelevare gli altri- propose Penny. Santri fece un ulteriore tentativo. 07860. Sbagliato. Risi anch’io.
-Vale io me lo ricordo il codice! Sono sicura deve essere 86078!-
-Seee- dicemmo in coro. Decidemmo di andarcene e di non provarci più.
Davanti alla chiesa di Sant’ Eustorgio chiesi ad una ragazza bionda se avesse una moneta da un euro, che insieme alla mia e a quella di Penny, ci avrebbe permesso l’ acquisto di un’ultima Heineken. La ragazza
sorrise mentre mi allungava al moneta. Venni immediatamente fermato da un tipo e una tipa, che diedero a me e a Penny un volantino su cui era scritto: “Sant’Eustorgio ti accoglie anche il venerdì sera”, inoltre capeggiava un immagine di Gesù in tutto e per tutto simile a un attore famoso.
-Grazie- disse Penny.
-Grazie- dissi io. Ma il ragazzo non mollò.
-Non volete entrare in chiesa? Dai ragazzi!- incalzò lui.
-Veramente non so, ho in mano un’Heineken, non so se si può entrare…-
-Ma certo che si può- disse ridendo e dandomi una pacca –certo che si può entrare in chiesa con la birra, te lo dico io figurati! Dai ragazzi, entrate-
-Ma no…non mi sembra proprio il caso, con una birra aperta…guarda non vorrei essere blasfemo…-
Lui però ottusamente insisteva.
-Ma vaaaa. Figurati. Ma ti pare che non si può entrare in chiesa con la birra?!-
-Non credo proprio che si possa entrare in chiesa con una birra e poi inoltre dovrei portare anche loro- indicai le mie amiche che sghignazzavano con rispetto –guardale sono anche ubriache-
Intervenne la ragazza –guarda che non c’è nessun problema-
-Infatti- disse lui –guardate che non c’è problema birra o no, e poi se è questo il problema, finite la birra ed entrate-
Più che cattolici avevano l’aria di testimoni di Geova. Insistenti, pedanti.
-Ragazzi, abbiate pietà, non credo si possa entrare con una birra in una chiesa- dissi. Penny rise. Non volevo offenderli ma li offesi comunque, anche se fui gentile. Riuscivo ad offendere la gente anche se non ne avevo le intenzioni. La realtà è che non sapevo comunicare e continuavo ad emettere vibrazioni negative. Non c’era la minima via di fuga da questa situazione.
-Va beh- disse la ragazza –fa niente, comunque ragazzi, ricordatevi che Gesù vi ama-
-Ah si?- risposi –ma se allora mi ama, com’è che continua a sputarmi in faccia?-
E su queste parole mi allontanai barcollando con sottobraccio Penny dai capelli neri sventolanti. Prosegui camminando in lungo e in largo per tutta la serata. Comprammo ancora una birra che bevemmo in silenzio. Penny disse una cosa buffa e ridemmo.
Ma ciò nonostante i miei problemi persistono tutt'
oggi

FUNGUS

Quell’autunno era stato decretato dagli esperti come uno dei migliori per la raccolta dei funghi. Erano stati previste giornate calde e l’alternarsi di copiosi rovesci. Il tutto per la gioia dei palati fini. Sulle montagne del lecchese, nelle quali abitava, Lucio, era pronto con tutta la sua attrezzatura da quell’estate. Non aspettava altro e come lui tutti gli appassionati. Lucio era anche un abile cacciatore; sapeva come abbattere un cervo e conservarne la carne. Non poteva essere diversamente visto che di mestiere Lucio faceva il bracconiere; sparava agli animali selvatici e poi andava a rivenderne la carne trattata ai ristoranti della zona. Lucio abitava in una baita nei boschi insieme a sua moglie Dora. Lei lo odiava perché lui preferiva qualunque cosa a lei, anche andare in chiesa. Certe volte lei lo aspettava a mezzogiorno quando tornava dalla caccia, con sotto la sottana nient’altro che la sua bernarda, e lui, che rientrava o con qualche pernice o con qualche fagiano, si cimentava in discorsi lunghissimi su questa o quell’altra cattura, cosa che faceva scendere a Dora ogni voglia. Quando al sabato sera lei aveva la fregola, lui o era troppo ubriaco oppure le diceva “Dora,dai domani dobbiamo svegliarci presto che dobbiamo andare a messa”. Lei sbuffava, aspettava pazientemente che lui s’addormentasse e poi andava in bagno a masturbarsi. Insomma sessualmente Lucio e Dora erano in crisi nera; almeno dal punti di vista di lei. Lucio sbavava dietro alla figlia del padrone del circolino dove andava a giocare a scopa con gli amici. Mara si chiamava. Mara aveva 23 anni e la 4° abbondante di reggiseno. Metteva in mostra tutto quello che aveva, sventolandolo sotto gli occhi degli avventori, mentre spillava bicchieri di vino e quando portava vassoi con i rossi o i bianchini. Il padre di Mara, Osvaldo, pensava che la figlia fosse una troia, ma la cosa lo faceva arrapare. All’età di quattordici anni quando alla figlia erano spuntate le tette aveva tentato di abusarne. Ora si limitava a spiarla nel cesso mentre si lavava o pisciava e poi si massacrava di seghe in gran segreto. La moglie di Osvaldo, Vera, era brutta, deforme e acida. Osvaldo la pompava solo quando era ubriaco ma ubriaco duro. Al mattino quando la sbronza era passata guardava quel rottame di donna dai capelli grigi e l’alito fetido e avrebbe voluto strangolarla tanto che gli faceva schifo. Insomma a parte tutto il resto, Lucio avrebbe voluto fare la festa a Mara, più di ogni altra cosa. La sognava di notte e di giorno quando era appostato in mezzo alla foresta ad aspettare qualcosa a cui sparare, la sognava ad occhi aperti. Una volta, gli era capitato senza accorgersene, verso le cinque della mattina, di risvegliarsi nel bunker delle anatre, tutto sporco con il suo cazzino in mano. Per la solitudine dell’attesa delle anatre aveva “pensato troppo” a Mara, e non aveva resistito.
Lucio quel giorno d’autunno era in giro per i boschi a raccogliere funghi. Sapeva che avrebbe dovuto fare in fretta perché i rompicoglioni provenienti dalla città sarebbero piombati li da un momento all’altro con le loro jeep targate MI a raccogliere tutto quello che c’era di commestibile e non. Mentre raccoglieva con cura degli etulus betulas sentì un frusciare dietro i cespugli oltre la radura. Allarmato, Lucio estrasse il coltello da caccia, scansò il fogliame e vide intrappolato in una tagliola per volpi un omino di quasi trenta centimetri d’altezza. Quell’essere era vestito con una giacca e dei pantaloni verdi, di ottimo materiale e fattura. Portava una barba senza baffi marrone scura e dei capelli ricci dell’identico colore. L’omino non sembrava essersi accorto di Lucio e tentava di liberarsi della tagliola, gemendo poiché non ci riusciva.
-Chi diavolo sei tu?- disse Lucio sgomento. L’omino si girò di scatto; i suoi occhi erano rossi di pura malvagità e un espressione da demonio era dipinta sul voltò. Ma questa durò un solo istante, poi l’omino assunse un espressione innocua e pregò Lucio di liberarlo.
-Manco per il cazzo!- rispose Lucio alle richieste dell’ominide. Quel nanetto barbuto assunse un’ espressione ancora più tenera se possibile.
-Ti prego, padrone,mi chiamo Fungus e sono un folletto del bosco. Liberami e esaudirò i tuoi desideri, fin dove mi sarà possibile!-
-E che cazzo vuol dire?- chiese Lucio, che da buon montanaro non era incline alle inculate.
-Beh vedi, se mi chiedi una macchina lussuosa o una imbarcazione non posso accontentarti, ma se mi chiedi delle monete d’oro o i favori di una donna, posso sicuramente esaudirli!-
-Cazzo Mara!- venne in mente a Lucio
Senza pensarci due volte, si sputò sul palmo della mano e la tese a quella bizzaria evolutiva.
Fungus scatarrò sulla sua, molto più piccola e strinse quella dell’omone.
-Affare fatto- disse Lucio. E liberò Fungus.
-Mi devi medicare, questo ferro che mi ha ferito non fa parte del mio mondo e non posso guarirmi da solo. Portami a casa tua- disse Fungus.
-Ok, così potrò verificare che tu esaudisca i miei desideri-
Lucio chiuse il folletto nella cestina dei funghi e lo portò di volata a casa, sapendo che Dora era in paese a far la spesa. Nel tragitto disse che avrebbe voluto diventare ricco, pieno di soldi, avrebbe voluto fare una vita da nababbo e tutte quelle cose che Fungus si era già immaginato. Poi parlò di Mara e descrisse come e cosa le avrebbe fatto una volta che la ragazza fosse stata sua.
Arrivati a destinazione Lucio organizzò per la sistemazione di Fungus.
-Dormirai nella cuccia del cane, nella rimessa-
-Ma sei scemo? Il cane mi divorerà- protestò Fungus
-Il cane è morto l’inverno scorso. Oh nanetto poche storie o ti rimetto dove t’ho trovato!- esclamò l’uomo e inchiavardò la caviglia buona di Fungus alla catena del cane.
-E’ bella lunga, non ti sembrerà d’essere incatenato!- scherzò l’uomo.
-Figlio di troia- sibilò il folletto tra i denti.
Dora rientrò a casa che Lucio aveva già disinfettato e bendato la ferita di Fungus. Il pomeriggio passò e arrivò la sera senza che Lucio le dicesse nulla sul folletto. Dora notò uno strano buon umore nel marito ma non disse niente, non lo invogliò nemmeno dopo cena, tanto che aveva perso le speranze. Invece fu Lucio preso da una strana passione a saltare addosso a Dora e a penetrarla senza nemmeno un minimo di civili preliminari.
-Avanti, leccamela brutto bastardo!- pensava Dora mentre tentava di venire. Non si era bagnata e la fica le faceva un male cane, la sentiva bruciare. Lucio a questo non fregava un cazzo, menò diversi colpi poi venne. La donna era incredula. Non era riuscita nemmeno lontanamente a venire, nonostante l’impegno e le poche volte che l’aveva assaggiato. Lucio stremato dalla grande fatica si addormentò. Dora era sgomenta. Era delusissima e pianse sommessamente.
Nella rimessa, Fungus se ne stava nella cuccia incazzato a morte. Lucio gli aveva promesso che gli avrebbe portato dello stufato di coniglio, ma dopo la sveltina si era addormentato e Fungus aveva dovuto sfamarsi mangiando due topi e un pipistrello. Ora era sveglio con gli occhi come carboni ardenti che puntava il gatto di Dora. Dora nel silenzio della cucina, venne attirata dal verso del suo felino che nella rimessa di fianco alla casa, sembrava lottare contro una tigre. Presa dalla curiosità e dalla preoccupazione andò a verificare che il suo micio stesse bene. Accese la luce della rimessa e vide un’ omino di trenta centimetri vestito con una giacca e pantaloni verdi, intento a divorare le interiora del suo gatto. Urlò e svenne di lungo sul pavimento della casupola. Riprese i sensi solo quando sentì qualcuno che la schiaffeggiava leggermente la guancia. Aprì gli occhi e vide Fungus che le batteva il cazzo sulla faccia. Incredibilmente il folletto era più lungo che largo; Fungus aveva un arnese di quasi trenta centimetri di lunghezza e non era nemmeno duro! Dora ammattì: sarà stato lo shock oppure quegli ultimi avvenimenti, sta di fatto che, d’amblè, prese quel cazzo smisurato, lungo e largo, porporino, venoso e pulsante e se lo ficcò in bocca. Aspirava come una pompa idrovora e Fungus, un minuto e ventinove secondi dopo, la riempì. Ma il folletto non era pago, e invece di addormentarsi come faceva sempre il marito della donna, prese e la incalzò, prima davanti poi dietro. Dora sembrava non averne mai abbastanza, e diversi orgasmi dopo, come fidanzatini si ritrovarono a scambiarsi carezze e a parlare. Fungus le raccontò di come fosse finito alla catena qualche ora prima e Dora ascoltava con attenzione soprattutto quando da vero bastardo, Fungus le raccontò dei sogni segreti del marito su Mara la giovane locandiera.
-Brutto bastardo- esclamò la donna –adesso lo sistemo io quel figlio di troia!- e i due ricominciarono di nuovo.
Passava il tempo e Lucio era abbastanza incazzato col folletto perché ancora non gli aveva esaudito un solo desiderio. Fungus protestava dicendo che fin quando non era guarito non avrebbe potuto far nulla, poi fingeva di arrabbiarsi a morte perché la trappola in cui era finito era stata opera di Lucio e quindi era colpa sua. In realtà scialava in quella rimessa. Quando l’uomo non c’era, la moglie entrava nella rimessa e lui si faceva delle goduriose scopate. Decise quasi da subito che non sarebbe andato più via di lì. Nel giro di qualche mese era ingrassato, poiché non faceva altro che mangiare, dormire e fottere.
Un giorno però Lucio, era incazzato a morte perché Dora lo aveva rimbalzato quando lui era andato a chiedergliela. Entrò nella rimessa e si fiondò sulla cuccia dove nel frattempo Fungus aveva appena finito di masturbarsi.
-Adesso mi hai rotto i coglioni! Ti do tempo una settimana, o mi fai scopare quella tettona, o giuro che ti apro come un coniglio!-
Quella notte, Fungus studiò un piano per assassinare l’uomo. Avrebbe dovuto parlarne con Dora. Aveva notato che la donna aveva preso ad odiare il marito più di prima da quando lui era arrivato in quella famiglia; e il giorno dopo, mentre pompava la donna contro la cuccia del cane, espose il suo piano.
-Siiii, si, siiiiiii, sii, siiiiiii- disse lei.
Come ogni mattina Lucio prese il suo fucile e andò a caccia. Una mezzora dopo Dora lo seguiva nel bosco, imbracciando una doppietta. Fungus nel frattempo era nella cuccia che dormiva e sognava di cavalcare un paio di nigeriane. Seguire l’uomo fu facile per la donna: Lucio lasciava tracce del suo passaggio molto evidenti, nel giro di poco gli fu alle spalle. Lucio prese il sentiero che portava a quello che lui chiamava “il passo del cervo”. Qualche minuto dopo era appostato in una macchia a ridosso di un torrente che si tuffava in un crepaccio. I cervi non tardarono ad arrivare. Vide una bella femmina fare capolino vicino all’acqua. Prese con cura la mira e sparò. Il cervo svanì nel giro di un battito di ciglia e Lucio, sdraiato a terra, si strinse il petto. Non era stato lui a sparare quello gli fu evidente. Un secondo dopo era morto. La moglie emerse dal suo nascondiglio, buttò a terra la doppietta e trascinò il corpo dell’ ex marito fino al crepaccio. Albeggiava quando lo spinse di sotto. Raccolse la doppietta prima di andarsene.
Durante tutto il tragitto di ritorno non pensò ad altro: una volta rincasata, avrebbe fatto al folletto un magnifico pompino.

LA BRUTTA AVVENTURA DI GIO' IL PESCATORE

Giò era un buon pescatore. Praticava quello sport da anni ormai, sin da quand’era bambino. Ora era sposato ma il matrimonio non gli aveva impedito di continuare in quello che lui definiva semplicemente “il suo passatempo”. In effetti se solo un fine settimana non fosse andato in riva al fiume a insidiare la fauna ittica, sarebbe stato male psicologicamente. La moglie, da brava donna, accondiscendeva al desiderio del marito. Giò tornava a casa sempre a mani vuote per due motivi principalmente: uno, perché ributtava in acqua quello che pescava; due, perché quei pesci erano pieni di diossina. Mangiare qualunque cosa che nuotasse in quelle acque voleva dire far crescere dei cactus nella pancia.
Quando arrivavano i primi caldi, lui passava intere giornate, dall’alba al tramonto sulle rive del Po. Capitava anche che dormisse fuori con la tenda insieme ad amici, tutti appassionati come lui di pesca. Sua moglie, questa cosa un po’ la soffriva, ma da brava donna che capiva le esigenze del suo uomo, ci sorvolava sopra. Giò con una donna simile, in cuor suo, sapeva di aver fatto 13.
Quando il sole picchiava più forte, già dalla primavera inoltrata, le rive del “suo” fiume venivano prese d’assalto da persone che con la pesca non avevano niente a che fare. Compagnie di ragazzi che andavano a prendere il sole. Giò da buon pescatore odiava la confusione e quando incombevano i primi caldi si spostava nella zona vicino alla ex centrale nucleare. Erano anni che quella centrale infernale era stata chiusa, ma i rifiuti tossici scaricati in passato nelle acque avevano contaminato tutto.
Giò rimaneva sempre sconvolto quando vedeva gli stranieri dell’est Europa, ignari di quel pericolo fluviale, che pescavano pesci e li mettevano in borsa per mangiarli, o peggio ancora, le loro donne che facevano il bagno in bikini. Giò immaginava quali razza di malattie della pelle potessero covare. Commentava con gli altri pescatori quale abominio comportamentale quella gente stesse facendo.
Quel giorno della fine di maggio, Giò da solo, si spostò come sempre verso sud, vicino alla ex centrale. Notò per la prima volta che l’acqua aveva strani riflessi di verde e rosa. Giò iniziò a pescare come sempre ma incredibilmente fu l’unica volta nella sua vita che non pescò nulla. Ne un aspio, ne un pesce-gatto. Giò tornò sconsolato con la sua canna a casa, incapace di credere alla brutta giornata che gli era capitata. Arrivò a casa e la moglie notò che qualcosa non andava. Giò quella sera non toccò cibo e andò a letto con una determinazione tutta indirizzata alla pesca della mattina successiva.
Si rimise nello stesso posto del giorno precedente e lanciò la sua esca in quell’ acqua dagli strani riflessi verde-rosa. Da lontano gli arrivavano alle orecchie gli urli e gli schiamazzi gioiosi delle ragazze dell’ est che si facevano il bagno nel Po. Giò recuperava e lanciava, lanciava e recuperava. Sempre senza sentire il minimo segno di una ferrata. Le urla iniziarono ad irritarlo. Lanciava e recuperava. Gli urli erano sempre più forti, sempre più forti, sempre di più. Il sangue iniziò a pompargli nella testa sempre più velocemente…Giò si girò verso quel gruppo di natanti stranieri, era una maschera d’odio. Ma lì non c’era più nessuno. Erano tutti spariti. Rimase sbigottito.
Eppure le canne da pesca degli uomini erano ancora lì, adagiate nei poggia-canna. La lenza era in acqua; il galleggiante che si muoveva a ritmo con le piccole onde del grande fiume. Giò pensò fosse successo qualcosa a quella gente. Poggiò con riluttanza la canna a terra e si incamminò lestamente verso il punto in cui sostavano i ragazzi. Chiamò. Nessuna risposta. Poi nella sua visuale entrò una ragazza dell’est piegata a terra. C’erano tracce del passaggio di esseri umani che si perdevano nella boscaglia.
Il terreno e il fogliame erano calpestati sembrava, da un carro armato. Giò si avvicinò alla ragazza, le toccò il braccio. La ragazza, in ginocchio piangeva in silenzio, era coperta solo dal bikini superiore, nella parte sotto era nuda. Si mise in piedi, sempre piagnucolando. Sotto l’ombelico era tutta sporca di sangue, poi cacciò un urlo abominevole. Giò sentì il rumore di qualcosa che si lacerava, come di un francobollo che veniva staccato da una lettera. La ragazza impazzì di dolore. Qualcosa iniziò a dibattersi per liberarsi, dal bassoventre della donna. Giò indietreggiò spaventato, la vagina della donna si staccò dalla sua padrona, cadendo a terra. Il sangue fuoriusciva a litri. La ragazza cadde all’indietro tenendosi ormai solo l’orifizio per tamponare la fuoriuscita di quel liquido vitale. Il sangue ricopriva tutto il suolo. Giò, spaventato, poté solo notare la vagina autonoma che si muoveva strisciando piano verso la radura. Poi dalla boscaglia arrivò un suono sordo come di una palla di cannone che cade a terra da una grande altezza; la terra tremò. Una sfera gigante del diametro di 3-4 metri, color carne e dal pelo marrone/nero, si avvicinò rotolando. Quella sfera organica si fermo in prossimità della piccola vagina che strisciava, come per aspettarla, come per accoglierla.
Il terrore travalicava la capacità di ragionare di Giò. Urlò quando vide la piccola vagina strisciante saltare ed annidarsi tra i peli di quella sfera. Quella “cosa” enorme, era una vagina gigante! La vagina gigante si aprì in un taglio verticale di circa un metro e mezzo di lunghezza, un odore fetido come di pesce marcito sotto il sole ne fuoriuscì e Giò nonostante fosse abituato all’ odore di pesce, vomitò. La vagina era sopra la ragazza che nel frattempo era morta dissanguata e, nel tempo di un’ istante la inghiottì. Giò scappò via nella direzione opposta dalla quale era provenuta la vagina assassina. Giò corse verso la sua macchina lasciando l’attrezzatura da pesca e tutto il resto. Terrorizzato salì sul suo mezzo. La vettura si mise in moto subito e non come nei film che non parte mai. Giò spinse l’acceleratore fino in fondo e uscì sulla strada asfaltata sbandando. Il fetore di quella vagina sporca gli riempiva ancora le narici insieme all’immagine della vulva carnivora che inghiottiva la ragazza. Giò sempre guidando vomitò sui suoi calzoni e sul tappetino dell’automobile. Continuò a guidare ancora, poi come impazzito iniziò a ridere. Rideva incontenibilmente ma la sua era una risata isterica. Poi esclamò:
-Certo non posso dire di aver avuto a che fare con una bella figa!-

martedì 21 ottobre 2008

VEDILA DAL LATO UMANO

Non era mai stato un gran che nella vita, abbastanza bravo a biliardo ma per il resto c’era ancora molto da lavorare; con le donne poi..non ce n’era una che era stato capace di tenersi, tempo fa. Ora frequentava solo vecchie prostitute da due soldi. Quelle con cui avrebbe potuto avere una storia le aveva trattate tutte male preferendo a loro il denaro e le ubriacature.
Si ritrovò a pensarci su mentre entrava a passo lento nell’area dimessa dietro il ponte della ferrovia, dove c’era la vecchia fabbrica. Faceva freddo quella notte e il fatto che avesse incontrato sulla strada Rino non l’aveva fatto star meglio. Dopo un piccolo freddo saluto i due avevano camminato a fianco in silenzio stringendosi nei cappotti, troppo leggeri per quella stagione.
Sandro si accese un’altra sigaretta come per togliersi dalla testa il resoconto della sua vita, allungò il pacchetto a Rino che non rifiutò.
Entrarono insieme nella vecchia fabbrica.
Altra persone erano raccolte in capannelli chiacchierando e bevendo vino o birra da poco. Molti andavano verso dei tipi seduti su delle casse di legno. Questi sembravano molto popolari la dentro. In realtà tutto dava l’aria della calma prima della tempesta.
Fra poco sarebbe cominciato lo show.
La gente affluiva sempre in maggior numero,stranieri e non. Una risata ruppe il brusio che arrivava alle orecchie di Sandro. Anche lui, abbandonata la compagnia di Rino si avvicinò a una di quelle casse. Salutò un tizio obeso dai capelli grigi adagiato con il culone su una di quelle panche di fortuna. Sandro non rivolse la parola a nessuno, tirò su col naso e ascoltò i discorsi dei presenti cercando di poter trarre qualche importante informazione.
Il ciccione guardò l’orologio e in lontananza si sentì l’abbaiare di un cane poi di un altro. Tutti si voltarono su quello più vicino,un pitbull striato, portato alla catena . Poi aspettarono l’arrivo di quell’altro; delle stessa razza ma di colore beige. Le due bestie vennero condotte lungo una piccola discesa, verso una fossa. Uno contro l’altro, a una certa distanza, tenuti alla catena. LA gente iniziò a puntare andando dall’uomo grasso e dai due suoi soci. Sandro guardò il cane marrone poi quello beige. Quello marrone aveva proprio l’aria dell’assassino, lo sguardo pazzo di chi sa già cosa lo aspetta, infatti aveva una grossa cicatrice grigia sul collo. Quello beige sembrava meno minaccioso e meno pazzo, forte e muscoloso senza segni di battaglie precedenti. Scelse il cane beige.
Puntò 50 euro, ne avrebbe ricevuti il triplo in cambio, se fosse finita come lui aveva ipotizzato. Il ciccione accettò la scommessa di Sandro solo perché lo conosceva, la puntata minima era di 200 euro. Ma molti puntavano anche 1000/1500 euro. Questi erano i più facoltosi che stavano quasi sempre in disparte, parlando fra di loro e ignorando i pezzenti come Sandro.
Da sopra quella buca, la gente inizio a disporsi contro le transenne arrugginite. Per tutti quegli esseri umani, quelle bestie, non erano esseri viventi ma solo un tramite che poteva portare del denaro.
I cani abbaiavano e ringhiavano furiosamente: credevano di odiarsi a morte. Poi vennero lasciati liberi e iniziarono ad azzuffarsi. Si alzavano sulle zampe e si ferivano a morte a morsi.
Tra le urla della gente che non ci stava più dentro e il ringhio delle bestie e l’odore della polvere, del ferro e del freddo, Sandro a occhi spalancati cercava di vedere tra la calca di persone, sperando che quell’animale beige gli potesse portare qualcosa in tasca.
Gli incontri potevano andare avanti anche più di un’ora, con quelle bestie che non riuscivano a finirsi perché troppo stanche. Ma questa non sembrava una di quelle volte. La gente agitava i pugni furiosamente urlando “ammazzalo, dai, ammazzalo!” Sandro non urlava, diceva solo “dai, dai” ma a bassa voce. Non c’era niente e nessuno da incitare ma solo le bollette in scadenza e qualcosa da mettere in pancia.
Il cane marrone prese il cane beige alla testa e Sandro da una posizione favorevole incitò il suo animale. Era già coperto di sangue, ma anche quello marrone era messo male e aveva una profonda ferita nel collo.
Il cane beige riuscì con uno strattone a liberarsi dalla presa di quello marrone. A Sandro parve che il suo eroe diventasse enorme e quell’altro piccolo. Il Beige si gettò sull’altro con una furia inverosimile, il marrone tentò una reazione ma quell’altro lo azzannò alla gola iniziando a scuotere la testa. La folla ululò più forte. Sandro poté udire l’uggiolare del cane colpito a morte. Il beige affondò i denti nella gola del suo avversario ringhiando; anche lui aveva capito che era una presa mortale. Il suo nemico cerò di azzannare il beige ma i suoi denti non riuscivano a far presa e lui mordeva solo l’aria. Dalla gola del marrone usciva sangue e la presa non gli permetteva di respirare nel giro di pochi secondi era morto.
Il beige e Sandro avevano vinto. Per il perdente non ci sarebbe stata più maniera di rivincita, ma solo un sacco nero e un salto in qualche fosso da qualche parte in un campo. Il padrone del beige vincitore si avvicinò al suo cane sanguinante, aveva ricevuto dei brutti morsi ma era in grado di poter combattere ancora, scondizolò quel moncherino assurdo che aveva al posto della coda. Il padrone legò e portò via il suo campioncino. Sandro si prese i suoi sudati soldi; era sempre più difficile ritornare a casa con le tasche piene.
-Avanti non fare il taccagno, hai incassato, puntali tutti su quello bianco è un buon cane- gli disse il tizio grasso indicando il pitbull appena portato nella discesa. Il suo avversario era un esemplare bianco e grigio. Sandro valutò la cosa; il suo avversario invece era solo la sua coscienza.

JACK & FANTASMI

“Me la ricordo quella giornata, c’ero anch’io. Andavamo in piazza del Cantàro a fumare pakistano, poi tornavamo a casa a quattro zampe”.
Ci passavamo le foto di gioventù di mano in mano, commentandole e ricordandoci di come eravamo corrotti.
Il pokerino era finito da circa un’ oretta, e io avevo incredibilmente vinto 20 euro, Max ne avevi vinti 25. Perdevano tutto Gino e Miki. La giornata mi era girata bene solo all’ultimo. Max dice:
-L’ idea era di quelle del tipo: se uno ha un corpo invalido e non lo può usare, gli trapiantano il cervello dal suo corpo ad un altro che funziona. Quindi, hanno trapiantato il cervello da una scimmia ad un’ altra, some esperimento diciamo, ma questa quando si è svegliata ha cercato di aggredire il dottore, molto probabilmente non si riconosceva nel nuovo corpo e dopo un paio di giorni si è suicidata!-
-Ma che cazzo racconti- gli faccio. Gli altri risero.
Girarono un altro paio di foto in cui Max aveva dei capelli orribili ed era al centro pista in una discoteca. La foto era oltremodo resa ridicola da un tizio che si intravedeva vomitare sul pavimento della sala.
Gigi tracannava birre fregandosene di tutti.
-Gli inglesi per rispetto dei musulmani hanno tolto l’olocausto dal programma didattico- esordisce Miki gettando una foto di noi al parco nel mucchio con le altre.
-Hai visto che fisico che avevano però gli ebrei in quelle foto? Se cercavano in qualche modo di farmi sentire grasso ci sono riusciti!- prorompe Gigi. Noi ridiamo. Lui continua.
-Hanno inventato la cultura del “fisico magro da passerella”, prima erano tutti ciccioni quelli che sfilavano!-
Nelle foto compare Gigi con una tipa con la testa piccola e gialla.
-Va chi ti facevi all’epoca!- gli fa Miki.
-Gli ebrei sono stati i precursori della moda del tattoo in Europa! Prima non lo usava nessuno poi hanno iniziato loro, e non un centinaio, no, svariati milioni di persone!-
-Ce l’hai con gli ebrei stasera?- gli faccio, sventolando una foto della testa gialla davanti alla sua faccia.
-Macché! Essere ebrei è una gran cosa, è un gran popolo, hanno inventato un sacco di cose: il fisico da modello, la moda del tatuaggio, i centri di dimagrimento intensivo e la liposuzione, poi grazie a loro è stato creato il sapone di qualità “super”. L’unica pecca che hanno è che ci hanno messo 40 anni ad attraversare un deserto!-
Max se la rise alla grande. Ma Max non aveva problemi come i nostri. Lui vinceva a poker, aveva un lavoro parastatale, non aveva problemi di fegato, quando andava a fare gli esami del sangue risultava sempre tutto perfetto, e, essendo single, non aveva i problemi che avevamo noi con le donne. Poteva permettersi di ridere di quasi qualunque cosa.
-La volete sentire una cosa agghiacciante- disse, -una cosa di fantasmi-
-Avanti- disse Miki prendendo il Jack dall’ armadietto. Versò un bicchiere a testa. Le foto erano o dimenticate in un mucchio, o venivano sfogliate come la leggerezza di quegli anni, veloce e senza attenzione.
-Se nel giorno di venerdì 17 a mezzanotte meno qualche minuto voi mettete due specchi uguali, esattamente uguali, uno di fronte all’altro, potete notare, a mezzanotte in punto, uno spiritello dalle sembianze umane correre da uno specchio all’altro. Tu lo puoi vedere saltare fuori da uno specchio ed entrare nell’altro. Un’esperienza unica!-
-Ma che cazzo racconti?- disse ridendo Miki. Buttava giù quel whiskino che era un piacere. Il Jack Daniel’s non era per niente il mio genere di whisky; non gradivo quelli che non erano scotch.
Molti però ne andavano matti, ma solo perché non ne capivano un cazzo, o almeno così pensavo. Però la maggior parte delle persone amava tutto ciò che era commerciale con un nome fico, una bella etichetta e basta. Il sapore non contava nulla. “Io bevo Jack Daniel’s” cazzo, c’era da sentirsi grandi allora.
Io bevevo Jack offerto da Miki che ne era un estimatore; lo buttavo giù ma pensavo fosse mondezza.
-E tu? Ci hai mai provato a fare quella cazzata con gli specchi?- gli faccio, guardando il mio bicchiere quasi vuoto. Desidero che qualcuno me lo riempia al più presto anche dell’ odiato Jack. Mi allungo e cerco la bottiglia sul tavolo, sentendo con un orecchio Max.
-No, io non ci ho mai provato, ma un mio cugino di Pisa, lui si. Però non aveva allineato bene gli specchi e lo spiritello è saltato fuori ma non è rientrato nell’altro e quindi e rimasto imprigionato in questa dimensione!-
-Cioè è rimasto intrappolato nell’appartamento di tuo cugino a Pisa?-
-Si! C’è la possibilità di intrappolarlo, lui ovviamente lo ha fatto involontariamente, però volendo si può fare. Chiaro che lo spirito gli ha sfasciato tutta la casa.- Max è teatralmente serio.
Bevo un po’ di quello che è nel bicchiere,tra le risate di derisione mi accorgo che ne è rimasto un solo dito nella bottiglia, anticipo tutti e lo faccio mio. Max incalza.
-E’ andata anche la televisione a casa sua, il programma quello di Michele Cocuzza…come si chiama…La vita in diretta!-
La tavolata scoppia in una risata. Michele Cocuzza è troppo. Anch’io non resisto, poi vuoto quel misero dito rimasto. Miki guarda la bottiglia vuota, poi guarda me pieno.
-Cazzo, l’hai finito tutto!-
-Tanto faceva schifo-

GALLEGGIANTE

Il mio tentativo di cercare un’occupazione fissa quel novembre, si era fermato all’ altezza della Match Point. Entrai col solo scopo di investire cinque euro su 4 partite della serie B del sabato e quattro partite della serie A della domenica. I miei sogni con scadenza di due giorni. In altri periodi dell’anno avrei potuto permettermi di perdere e di fregarmene, ma ora non potevo assolutamente fallire. Perdere dieci euro era dolorosissimo per le mie tasche. Valeva comunque la pena tentare di moltiplicarle.
Scelsi con cura le mie partite, puntai e ricevetti in cambio quanto potevo incassare, la somma mi fece sorridere, un trecento euro nella prima puntata e un duecentocinquanta nella seconda. Avrei potuto tentare i cavalli, ma quelli erano troppo imprevedibili e senza dritte di sorta la cosa non si poteva affrontare; considerando anche che io non avevo nessuna competenza in maniera equina.
Mi piaceva parecchio osservare esternamente però chi era parte di quel mondo di scommesse, come la comunità filippina. Decadente e spassosa. Tra una birra e l’altra, uomini, si giocavano in poco tempo la loro sudata paga giornaliera, dopo aver subito lavori manuali pesantissimi; i più fortunati potevano permettersi di giocare quello che le loro donne avevano guadagnato per loro. Quando gli entrava quella buona erano tutti amici e sicuro che la sera si sarebbero ubriacati e avrebbero festeggiato con le loro donne, ma quando la cosa non aveva successo si ringhiavano contro, senza nessuna ragione apparente, incomprensibili monosillabi arrivando addirittura alcune volte alle mani e raramente ai coltelli. Le loro donne quando rincasavano prendevano schiaffoni dati dall’ alcool e dalla delusione.
Guardarli mentre litigavano era formante per il carattere.
Quel giorno però non ero nelle corde per una cosa simile, cioè osservarli e bearmi del loro status esistenziale. Era quasi mezzogiorno, optai per il bar di fianco alla Match Point. Era l’ora di un falso aperitivo. Entrai nel bar e ordinai un rosso da 80 centesimi. C’era un anziano che leggeva il giornale commentando le notizie di politica ad alta voce con il barista. Nella voce del barman c’era una punta di svogliatezza nel parlare con l’uomo e c’era anche da capirlo. Alle mie orecchie arrivava l’inconfondibile suono snervante del videopoker, su cui un ragazzo era impegnato a infilare denaro. Alla mia sinistra su uno sgabello era appollaiato un uomo che, con davanti una birra, inghiottiva taralli guardando fisso lo specchio di fronte. Tutto lo scenario era patetico e informe e io arrivai a dare un ulteriore tocco d’inutilità.
Bevvi il mio bicchiere e ne ordinai un altro. Novembre era difficile da affrontare. Trangugiai anche quello con più passione del primo e ne chiese uno ulteriore. Novembre era veramente un mese pessimo e freddo.
Intorno a me tutto rimaneva invariato, l’unica cosa che si muoveva erano i pesci dentro l’acquario e sembravano molto più attivi e frenetici di noi. Poi nel mentre del mio lento e pigro terzo rosso, una bomba esplose alle mie spalle; entrarono due ragazzi trafelati, uno con cannone spianato e l’altro armato di coltello. Una rapina in piena regola.
-Fermi, fermi, brutti stronzi– iniziarono ad urlare i due banditi.
Nessuno dei due si era preoccupato di bendarsi il volto. Il tizio con la pistola saltò dietro il bancone andando di fianco al barista. Di fianco alla cassa.
-Aprila avanti, svelto cazzo!- intimò.
Il barista fece come gli era stato ordinato intimando alla calma il ragazzo.
Quello col coltello, con la faccia butterata, andò dal vecchio che leggeva si fece consegnare il portafoglio e la collanina. L’anziano tremante consegnò tutto quello che possedeva.
Il pistolero raccoglieva il contenuto della cassa e si apprestava a ripulire le tasche del barman. Dalla sua espressione doveva essere felice di quello che aveva trovato nelle tasche dell’uomo. L’uomo butterato invece passò al tizio del videopoker. Il pistolero, dal voto barbuto, puntò la pistola a me e al tipo di fianco a me, mettemmo tutte e due il portafogli sul tavolo. Svuotò il mio, ne uscirono dei foglietti e due monete da due euro, svuotò quello dell’altro tizio ne uscì un biglietto da cinque.
-Ma che bar di pezzenti è sto qua?!- esclamò il rapinatore.
Mi vergognai un po’, mentre il mio vicino guardava sempre fisso davanti a se. Aveva se non altro smesso di divorare cetriolini e taralli. Veloci come lampi i due ragazzi presero su tutto e scapparono dalla porta, salirono su uno scooter e svanirono nel traffico. Era finito tutto. Era durato cinque minuti.
-Bastardi, figli di puttana- urlarono il barista, il vecchio e quello del videopoker, uscendo sul marciapiede, tentando di vedere la targa del motorino. Io e l’altro non ci scomponemmo.
-Drogati, drogati di merda!- sentivo urlare dalla strada.
-Ci hanno rapinati! Si quei ragazzi che ha appena visto uscire di corsa,si quei due, che bastardi!-
-Incredibile, ma che mondo- disse una donna
-Non si può più vivere in questa città- esclamò un’altra
Io finii il mio bicchiere di rosso in una sorsata. Avevo perso 4 euro. Raccattai i foglietti, vecchi scontrini inutili e pezzi di foglietto con scritti indirizzi, e mi venne un colpo. Una scossa elettrica mi attraversò il cervello. Venni preso dalla frenesia. Cercai e cercai e alla fine mi acquietai quando li trovai.
Le due ricevute delle giocate erano ancora lì. Sane e salve. Mi avevano lasciato una possibilità.

ARGOMENTI IMPORTANTI

Al parco Max mi parlava di qualcosa che ignoravo alla grande, lui diceva “cose importanti” parlava di Mib, Mibtel, Mib30…ma che cazzo ne so io? Compra, vendi...
-Non si può parlare di figa? Sarebbe più costruttivo, almeno per il morale!- dico.
Anche Lilly era convinta di questa cosa, non che fosse lesbica, però qualunque cosa era meglio di quella lezione di economia forzata e inutile.
-Va beh fate quello che volete...io lo dicevo per voi!
Per noi? Ma chi cazzo se ne fregava di quelle robe da saliscendi!
-Ve la dico io una cosa sensazionale - esordisce Lilly, e attacca che aveva letto questa notizia sul giornale che danno gratis alla metropolitana.
-E’ vera sta cosa, chi vuoi che menta su una storia del genere?!
-Ok Lilly, ma che cazzo è?
-L’articolo diceva che c’era questo tizio che era entrato in una panetteria a comprare il pane, ovviamente. Era la prima volta che si fermava da quel panettiere che aveva visto aperto dopo le otto sulla strada.
-Oh Lilly ma è sensazionale!- commenta ironicamente Max.
-Lui scende dalla macchina e compra il pane e vede nella vetrinetta una crostata di albicocche, beh si vede che la giornata è stata una merda, si fa tentare, quasi ipnotizzato dalla torta e la compra tutta intera-
-E sul giornale c’era scritto questo?- chiedo.
-Cazzo ma aspettate!- si scalda lei. Io, nel frattempo stappo un Heineken.
-Insomma si compra sta cazzo di crostata, cena; e dopocena si avvicina alla torta con il coltello, fa per tagliarla ma non ha più fame. “la mangio domattina a colazione” deve aver pensato.
-E la mangia a colazione?- chiede Max.

Io ho la sensazione che sia la storia più inutile che abbiamo sentito negli ultimi 10 anni e non voglio farne mistero.
-Oh va che hai rotto il cazzo con sta storia, ma che cazzo di senso ha?- le dico.
-Allora sto povero stronzo non riesce a mangiare la torta, nemmeno la mattina dopo. Ma nemmeno la sera, cioè lui è andato avanti così per mesi, voleva mangiare la torta ma appena si avvicinava con il coltello gli passava la fame. Ha lasciato la torta per mesi aperta sul tavolo e l’aspetto di quella crostata è sempre stato uguale al primo giorno!-
-Quindi, ha scoperto la torta che non fa muffa?-
-No! Una sera rincasa e si avvicina alla crostata e questa si libra da tavolo roteando per tutta la stanza! Cioè la crostata di albicocche roteava in volo nel suo soggiorno! Poi dice che, sempre volando ha preso direzione della finestra ed è sparita nella notte!-
Restiamo per un attimo in silenzio, poi scoppiamo a ridere.
-Ma che cazzo t’inventi?-
-Era sul giornale!- si difende Lilly, poi aggiunge -quest’uomo diceva che la crostata d’albicocche poteva essere benissimo un alieno che aveva assunto la forma di crostata d’albicocche e che si era insediato in casa sua per studiare il comportamento degli esseri umani e i loro ambienti. Il giorno successivo il tizio è ritornato in quella panetteria ma al posto del negozio c’era una casa abbandonata!!
-E tu hai bevuto sta cosa?
-Guarda che è tutto documentato dal giornale, altrimenti non l’avrebbero pubblicato!
Io li guardo perplesso. Lui il Mibtel e lei l’aliena rotante. Stravolti entrambi.
-Finisco la birra e me ne vado a casa- annuncio. E così faccio.